Un ampio servizio dell’ultimo numero della rivista “Archeologia Viva” è infatti dedicato alla scoperta effettuata da Lorenzo Quilici e Stefania Gigli, i docenti universitari, rispettivamente di Bologna e Napoli, che avevano già illustrato gli esiti delle loro ricerche durante un convegno svoltosi nel marzo scorso a Villa Placitelli, nell’ambito di un’iniziativa dell’assessorato regionale all’ambiente e del Parco dei Monti Aurunci all’interno del cui perimetro si trovano le rovine di alcune case e una parte delle gigantesche mura attribuite, appunto, ad Amyclae. Emergenze archeologiche, venute alla luce dopo un’accurata campagna di scavi, che testimonierebbero la presenza della mitica città di cui scrissero già molti autori latini. Fra questi Plinio il Vecchio che, parlando del famoso vino Cècubo, afferma che il vitigno era coltivato nella zona del golfo di Amyclae, diventato oggi la piana di Fondi. Altri riferiscono che la città sarebbe stata fondata, come Taranto, da un gruppo di spartani, non senza l'intervento di divinità e personaggi mitici. La sua stessa fine veniva ricordata nel mondo antico come un evento straordinario, avvolta nel silenzio, con gli abitanti sterminati da migliaia di serpenti usciti dalle paludi. Il motivo per cui del famoso centro laziale, interamente costruito in dura pietra calcarea, si era completamente persa la memoria costituisce, da solo, una vera curiosità storica, spiegabile tuttavia, affermano gli archeologi, con il fatto che il pianoro in cui sorgeva si raggiunge con estrema difficoltà dopo una lunga arrampicata e che le pur imponenti rovine si mimetizzano fra le rocce della montagna e i recenti terrazzamenti agricoli. La collocazione di Amyclae in una zona montana - e non, come si è creduto per secoli, nell’area costiera tra Fondi e Sperlonga, dove sarebbe stata sommersa dall’acqua - ha tuttavia suscitato perplessità. A rappresentarle pubblicamente è stato, in particolare, lo studioso locale Albino Cece. In un articolato intervento - riportato fra l’altro dal salotto culturale on-line “La Portella” - il ricercatore originario di Ausonia evidenzia innanzitutto il lavoro svolto sin dagli inizi dell'800 da alcuni studiosi fondani, per lo più di condizione benestante, buoni conoscitori delle lettere greche e latine, con tempo libero a disposizione per verificare e confrontare sul territorio quanto essi leggevano sui testi degli antichi storici. Tra questi Giovanni Sotis, che ha lasciato relazioni di suoi scavi effettuati su impulso del Principe di Fondi, e, ancor prima di lui, il padre Biagio Sotis. Citata anche l’opera del contemporaneo monsignor Mario Forte, tra i principali storici di Fondi. "Tutti – afferma relativamente stizzito Cece - hanno certezza della collocazione costiera dell'antica Amyclae e nessuno d'essi si è mai sognato di supporre una sua collocazione in montagna”. Secondo Cece si stanno insomma stravolgendo, con una certa supponenza colonizzatrice della nostra cultura, due secoli di studi e di ricerche ignorandone completamente il contenuto consacrato in decine di volumi. “Nessuno – prosegue lo storico ciociaro - ha mai sostenuto gli studiosi locali; tutti invece sembrano accondiscendere supinamente ai luminari forestieri e questo non sembra un comportamento adatto alle pubbliche istituzioni che non dovrebbero mai perdere di vista l'incremento della cultura sul proprio territorio”. “Anche se oggi è ancora difficile dar ragione all'una o all'altra ipotesi, cioè all'Amyclae costiera o montana, pur tuttavia – conclude Albino Cece - non si è finora sentita una voce di commento da parte della pur consistente e valida comunità culturale di Fondi relativamente a questo offensivo blitz di cesariana memoria”.